giovedì 22 settembre 2011

Everybody Hurts. Today.




“It’s Easier to leave Than to be Left Behind. Leaving was never my proud.”

Siamo praticamente coetanei, io e i REM. I loro riff pieni e la voce nasale di Michael Stipe uscivano dalla chiesa sconsacrata di Athens, in Georgia, preparandosi ad abbracciare il mondo, quando io avevo un anno – più o meno – quindi, per me, i REM ci sono sempre stati.

Ci sono stati quando ero un adolescente e tutti intorno a me ascoltavano “Losing My Religion” e a me non piaceva (e continua a non piacermi);

Ci sono stati con “New Adventures in Hi-Fi”, il MIO album dei REM;

Ci sono stati quando ho cambiato città per l’università e “Imitation of Life” era lì con me. A farmi compagnia;

Ci sono stati quando vivevo in America e le loro canzoni – “Leaving New York”, “Man on the Moon” o “Bad Day” – mi facevano sentire un po’ di più “one of the guys”;

Ci sono stati negli ultimi tempi, quando ho riscoperto i primi album - “Murmur” e “Reckoning” - con la sensazione che il college-rock è ancora lì, che il tempo si è fermato e possiamo essere adolescenti per sempre;

Ci sono stati – soprattutto – nel momento più tremendo della mia vita, quando il dolore – uon di quelli così grandi e atroci che tolgono il respiro e ti fanno pensare che niente sarà mai più come prima – aveva come colonna sonora “Everybody Hurts”, con Stipe che dice “You’re Not Alone...” e mi sembrava lo cantasse solo per me;

Da ieri sera non ci sono più. La band si è sciolta. E’ stato bello. Grazie a tutti.

La band non c’è più, la musica – invece – ci sarà sempre, perché il “rapido movimento degli occhi” si sarà anche fermato, ma noi non abbiamo nessuna intenzione di smettere di sognare...

martedì 28 giugno 2011

With Great Power Comes Great Responsibility?

In questo blog abbiamo sempre cercato di rendere onore al conflitto d’interessi.

Nel senso che nessuno dei redattori si è (quasi) mai occupato della squadra per cui fa il tifo, almeno durante calde serie di play-off.

Per questo, il mio socio, these days non ha scritto niente che avesse un focus sui Miami Heat, preferendo dedicare del tempo all’idolo Kidd.

Quindi tocca a me? Diciamo che potrebbe, ma soprattutto che vorrei…

Nel 1988 Brett Michaels – prima di diventare una patetica reality star di VH1 che tenta di accoppiarsi con varie famewhores of redneck origins - cantava “Nothin’ But a Good Time” insieme ai suoi Poison e a quintali di lacca per capelli.

Ecco, ogni volta che sento quel pezzo – capita, a volte, scusate – mi viene in mente che alla fine - nella vita - anche la leggerezza deve aver il proprio spazio, il proprio posto, il proprio diritto ad esistere. Perché come ho già detto più volte altrove “Sometimes You Gotta Say: ‘What the Fuck!’”.

In una mia ipotetica mappa mentale che prenda vita dal concetto di leggerezza, uno dei primi rami collegherebbe quel concetto alla faccia di LeBron James, con tutto il rispetto per Tony Buzan e il cognitivismo.

Perché LBJ? Perché, secondo me, lui è uno dei quelli lì. No, non uno dei Poison (anche perché non potrebbe usare molta lacca, causa assenza di materia prima), ma uno di quelli che ha scelto di divertirsi. Soprattutto.

Lo avete mai visto realmente arrabbiato nelle tante conferenze stampa post-defeat degli ultimi anni? Io no, l’ho visto solo seccato, ma soprattutto quasi impermeabile a tutto ciò che gli accadeva intorno. Per fino durante “the Decision” sembrava passasse di lì per caso…

Non ho mai notato – per fare un esempio “a caso” – una scena “alla Kobe Bryant”: di quelle in cui il 24 fa pause celentanesche tra una parola e l’altra rispondendo al reporter di turno che gli chiede “che cosa sia andato storto”, respirando forte e pesante con le narici che si dilatano – tipo toro – e i pugni sul tavolo che si chiudono a stringere l’aria. Insomma, il body language a volte dice più delle parole.

Non con LeBron. Lui ha sempre una faccia, e quella porta in giro. E tanti saluti.

Tutto bene, quindi? Non proprio…

Già perché – come dice lo zio Ben – “da un grande potere, derivano grandi responsabilità” e allora, se esci dalla fabbrica con tutta quella “roba” lì di serie, non puoi sperare che il resto del mondo non riponga delle aspettative su di te. No, semplicemente non puoi.

Da quando ha esordito tra i pro, a parte la sbornia iniziale, il nostro (o meglio il “vostro”) ha sempre comandato (anche) la classifica dei giocatori più antipatici (per non dire odiati), ovvio che “The Decision” sia stata per questo la ciliegina sulla torta…

In un film in uscita in questi giorni negli Stati Uniti, uno scambio di battute mette abbastanza bene a fuoco il problema. Uno studente – un bambino delle elementari, troppo giovane per MJ - dice al proprio insegnante di educazione fisica “non vorrai mica paragonare Jordan a LBJ, vero?” e l’insegnante “chiamami quando James avrà vinto sei titoli”, e il ragazzino “è tutta lì la motivazione?”, che viene ghiacciata da “è l’unica motivazione di cui ho bisogno”.

Allora – secondo me – il problema non è “LeBron è costretto a vincere”, ma piuttosto “LeBron deve smettere di far finta di vivere secondo le aspettative che gli altri (famiglia, entourage, multinazionali) gli hanno appiccicato addosso”.

E’ chiaro che non stiamo parlando di Jordan o di Bryant. E non per talento, ma per competitività. “Quelli” sono due che non sarebbero mai andati a Miami, a casa di un'altra star. Discorso chiuso.

James sì e facendolo ha fatto coming out. Ha detto che lui era “quel tipo lì” e che quello che ha tatuato sulle spalle “The Chosen One” è solo un avatar, più grosso, più cattivo e più determinato, creato da qualche parte nelle vicinanze di Beaverton, nell’Oregon (citofonare “Nike”).

Miami vincerà un titolo nel prossimo futuro? Probabile. Sarà il titolo di James? Non credo.

Ma se “A Man’s Got to Know His Limitations” – come diceva la mia guida spirituale Clint in “Dirty Harry” - allora urge rimettere nella giusta prospettiva la funzione e il ruolo di James, per evitare che sprechi tutta la carriera fingendo di essere quello che non è e che neanche vorrebbe essere.

La nuova mission per l’ex figlio di Akron, allora, è quella di sentirsi libero di infilarsi il costume di Robin, senza più remore e senza sensi di colpa, anche perché se è vero che “questa città ha bisogno del suo eroe”, Miami – e le ultime finali lo hanno confermato – il suo “cavaliere oscuro” ce l’ha già…

domenica 27 febbraio 2011

Gone for Good...

Per tutta l'estate – e la prima parte della stagione – si è parlato solo di "The Decision". Quando, però, Lebron James ha finito il rodaggio e il mondo cestistico si è - più o meno - abituato a vederlo scambiarsi con Wade il ruolo di sidekick e quello di prima punta (oggi tocca a me, domani a te), finalmente abbiamo avuto un mercato degno di questo nome. E pazienza se c'è voluto qualche mese in più, ne è valsa la pena.

L'unica cosa bella dell'All-Stars Game (almeno per il sottoscritto) è che mentre i burattini si mettono in mostra, i burattinai iniziano a fare sul serio.

Tre movimenti hanno caratterizzato il febbraio 2011. Tre cambi di canotta che non possono passare inosservati: Baron Davis a Cleveland, Deron Williams a New Jersey e – finalmenteèfinitagrazieadio – Carmelo Anthony a New York.

Se per il Barone la trade che lo ha visto protagonista può essere catalogata come l'ennesimo spostamento di una carriera troppo movimentata per essere di livello assoluto, quelli di Williams e Anthony hanno un sapore diverso.

"Take That, Melo!": questo il tweet con cui il russo proprietario dei Nets ha fatto sapere al mondo la propria soddisfazione per aver portato a casa (sua e di Jay-Z) la point-guard di Utah, giocatore di prima fascia che si è dimostrato assai meno capriccioso dell'altro neo arrivato all'ombra dell'Empire, ma sull'altra riva dell'Hudson River...

"We're going back home, baby!" ha detto Carmelo Anthony alla moglie LaLa Vasquez – la quale non ha esitato ovviamente a condividerlo con il mondo – quando le comunicato che la trade era cosa fatta e che Denver andrà anche bene, ma Manhattan va meglio.

Qualcuno ha fatto notare il prezzo – non proprio cheap – che i Knicks hanno dovuto pagare per avere l'ex 15 dei Nuggets: tanti starters e – soprattutto – Danilo Gallinari, un giocatore che aveva un valore simbolico in città che andava oltre quello che diceva il campo.

Onestamente, va detto che – al netto del tifo, delle simpatie personali e del patriottismo più spicciolo – il Gallo è un gran giocatore, ma 'Melo è un campione, uno dei primi dieci del mondo per talento assoluto e se hai la possibilità di prenderlo e non lo fai per non sacrificare Rooster, allora è meglio che cambi lavoro ché la dirigenza sportiva non è esattamente il tuo campo.

Danilo perde tanto in termini di visibilità, perché Denver non è illuminata come theCityThatNeverSleeps, ma avrà (anche per ragioni anagrafiche) tutto il tempo per far vedere quanto vale cestisticamente e dopo aver dimostrato di avere il talento per poter stare in scioltezza in NBA e di aver il carattere per sopportare per tre stagioni la stampa e il pubblico di Gotham, allora l'impressione è che la "nuttata" sia passata e che la strada sia in discesa...

Di certo i Knicks non diventano da titolo con 'Melo e Stat, manca la difesa ma per quella più che cambiare un giocatore serve cambiare il coach (prossima – più che probabile – mossa) perché D'Antoni quella "cosa" lì non ce l'ha e senza non vinci in TheLeague.

Rimane, comunque, la sensazione che ai Knicks si stiano attrezzando per una mossa in pieno stile Heat, due stelle assolute adesso le hanno e chissà che non ne arrivi una (decisiva, allora sì) per il titolo during the summer.

Se c'è stata una mossa che può avere conseguenze per l'anello è quella fatta dai Celtics: dare via Perkins potrebbe essere un azzardo, specialmente in ottica Finale NBA contro i Lakers, ma per questa storia c'è tempo...

martedì 5 ottobre 2010

Ma noi tutti ‘sti asciugamani non li abbiamo mica: ovvero “perché noi saremo buoni, ma gli americani devono sempre essere meglio”

L’Europa e l’America. La FIBA e la NBA. Due mondi (universi, galassie) molto più lontani di quanto possa sembrare e che – almeno per il sottoscritto – meno si incontrano e meglio è.

L’amichevole tra i New York Knicks e l’Armani Jeans Milano era comunque un’occasione di quelle in cui si può passare sopra alle differenze di cui sopra, per godersi una trasferta dal sapore particolare.

Ricevuto l’accredito stampa, pianifico un week end di stalking puro ai danni della squadra blu-arancio, e pazienza se quello che a giugno sembrava essere l’attrazione numero uno ha deciso di smarcarsi preferendo allenarsi in una base militare con Wade e Bosh piuttosto che sotto la “madunina” nostra.

Premetto che della partita di domenica sera non vi dirò niente – ché tanto quello che volevate sapere lo avete già saputo dai giornali/TV/siti/blog – perché quello che voglio provare a raccontarvi è il mio sabato, o meglio il nostro sabato. Quello di un gruppo di esseri umani, molto diversi tra loro, con in comune la passionaccia per questo gioco…

Arrivo al “Westin Palace”, in Piazza della Repubblica, prima delle 10 per ritirare il pass. L’albergo è quello dove alloggia la squadra, ma sarebbe meglio dire che è quello dove alloggia l’NBA. Lo spiegamento di forze è imbarazzante e la sala stampa al primo piano di improvvisato ha solo il nome. Almeno una trentina di “media-people” della Lega sono pronti ad accoglierti e guidarti passo-passo.

Ecco, se vi è mai capitato di “coprire” un qualche evento (e neanche necessariamente piccolo) in Italia, probabilmente vi sarà rimasto in bocca il retrogusto amarognolo di un’organizzazione un po’ “pane e salame”. Invece qui si sale di livello. E di molto anche.

Comunque, pass al collo, mi dirigo al mitico “Palalido” ché alle 11 è previsto l’allenamento dei Knicks.

In metro becco coach Dan Peterson che mi racconta come – ai bei tempi – facesse quello stesso tragitto con la squadra per andare alle partite, Mike D’Antoni compreso. Quel D’Antoni che allora faceva il play di Milano e che oggi fa il coach di New York. Bei tempi appunto.

Arriviamo al palazzetto insieme al pullman (pullman…sarebbe più esatto dire shuttle) dei Knickerbockers, dal quale scendono players e friendsandfamily. I primi imboccano le scale per gli spogliatoi, i secondi (la maggior parte almeno) prendono un tot di taxi che un po’ di shopping meneghino fa sempre bene…

Antonello Riva-Davide Pessina-tiziochenonconosco-tiziachenonconosco-Sale Djordjevic-Flavio Tranquillo-IO-Alessandro Mamoli-dirigente Armani Jeans Milano. Questo delirio è l’ordine dei posti nella fila, assolutamente a bordo campo, dove sono seduto. Non provate a giocare a “indovina l’intruso” che è fin troppo facile.

Seguono ore 4 (più o meno) di chiacchiere, commenti, risate e goodtimes come te le sogni la notte. Tra i migliori highlights rimane l’uscita del Pess che, nel momento in cui Amar’e si è levato la maglia, si è alzato in piedi, si è tolto il giubbotto e ha urlato “vediamo chi intimidisce di più adesso!”

La sensazione – da neofita - è quella di essere capitato in mezzo a un gruppo che si conosce/frequenta da almeno trent’anni, chi in campo e chi a bordo campo, e ha condiviso la vita (almeno i momenti più salienti) crescendo insieme.

Si parla (o meglio parlavano) di mogli, di figli, del fratello di Djordjevic, della cena della sera prima al “Tronchetto” in onore di Mike D’Antoni, con tanto di bisca clandestina come ai vecchi tempi, di una delle voci – e delle penne – più amate del nostro basket colpevolmente assente all’evento, e di tanto altro…

E allora tra un Gallo che porta a spasso almeno una decina di chili in meno rispetto all’ultima volta che l’ho visto dal vivo (un anno esatto) e che sembra veramente “one of the guys” e a un Turiaf che si allena 5 minuti a sta fermo mezz’ora ma che quando fa sul serio capisci perché gli paghino lo stipendio…

Tra tre assistenti allenatori SEMPRE a correre in mezzo al campo che sembrano il sergente di “Full Metal Jacket” e un D’Antoni stravolto dai ricordi e dall’emozione…

Tra un Pess che dovrebbe avere un suo reality show e uno Stat che mi ha fatto perdere venti anni di vita arrivandomi alle spalle urlando come un pazzo “The President!!!” (stava “solo” chiamando Danilo, che in Italia per i Knicks è il presidente) e – soprattutto - un magazziniere dell’Olimpia che dice a D’Antoni – in milanese strettissimo – “ai nostri tempi avevamo tre asciugamani per tutta la squadra, questi (gli americani) ne hanno dieci a testa…che roba…”…ho passato una giornata in compagnia di gente “del basket” e “di basket” irripetibile…molto meglio di uno show di marketing puro travestito da partita (combattuta nel risultato solo per i giornali italiani) di una domenica d’inizio ottobre…

Un paio di note per chiudere:

Chiedo scusa a Stoudemire per tutte le volte che ho detto che era solo un “fisico bestiale” (cosa difficilmente negabile tra l’altro) e non un vero giocatore: l’ho visto con i miei occhi fare 8/10 da tre in riscaldamento e – durante la partitella – il commento meno entusiasta circa le doti tecniche di Stat è il tranquilliano “che tiri così con quel fisico è irreale, mai vista una roba simile”…

Quando bighellonavo in campo a fine allenamento, fotografando e parlottando con i giocatori (che erano molto in vena) noto un signore molto (moltissimo?!) in là con gli anni, seduto su un seggiolone a bordo campo, cui tutti facevano la reverenza e io pensavo “ma chi cazzo è ‘sto vecchio?!”. Era Donnie Walsh. Che cazzone. Io. Non ne avevo idea, però vi avevo avvisato che in quella fila di seggiolini a bordo campo c’era un intruso…

sabato 18 settembre 2010

Sheena is a Punk Rocker, ma anche noi non scherziamo...

Io Don Letts mica lo conoscevo.

E non è che adesso lo conosca personalmente, ma l’ho frequentato al MilanoFilmFestival per tre giorni e – soprattutto – ho goduto per due notti grazie ai suoi lavori.

No, non sto parlando di porno (cui va tutto il mio rispetto) ma di un paio di documentari che invece del Parco Sempione meriterebbero le aule di tutti i licei del mondo.

Don sembra un giamaicano (e lo è di origine) che suona raggae (ma non solo quello in realtà), però è un inglese che fa tante cose: il dee-jay e il documentarista sono due tra queste.

“Punk: Attitude” e “Strummerville” sono due manifesti scritti, montati, diretti e partoriti dal Don nostro sulla libertà più grande che c’è: quella di poter dire vaffanculo.

Un vaffanculo stonato e scordato come le voci e gli strumenti dei protagonisti di quello che viene sempre ridotto a genere musicale, ma che in realtà è “solo” un modo di vivere. E magari anche il migliore che potete trovare in giro…

Il punk, allora, è necessario, ma non è necessario che vi piaccia. E’ necessario che esista perché col cazzo che vogliamo vedere tutti gli stessi film, leggere gli stessi libri, vestirci nello stesso modo e mangiare le stesse cose…siamo diversi ed è sacrosanto che nessuno ci rompa le palle.

“Fuck You!” è la parola più pronunciata in “Punk: Attitude” da quelli che trenta/quarant’anni fa hanno deciso che non serviva saper suonare uno strumento o essere Sinatra per mettere su un gruppo e dire quello che doveva essere detto.

La musica, dice Henry (Black Flag, idolo) Rollins nel primo documentario, è ciclica: ogni vent’anni di merda si sente il bisogno di cambiamento e, così, viene fuori la nuova/vecchia/prossima rivoluzione musical-culturale. E’ successo prima del punk, ed è successo a vent’anni dalla morte del punk con il grunge.

Mentre sbavavo guardando i Ramones e i Television sul maxi-schermo, pensavo che sarebbe proprio ora del prossimo ciclo, ché mi sarei anche rotto i coglioni di quello che si sente in giro.

Ah, per quelli che stanno pensando di farmi notare che non s’inizia mai un capoverso con “io” – e l’ho fatto all’inizio di questo post – ho una sola parola: vaffanculo (ovviamente)

martedì 31 agosto 2010

Beh, io allora vado eh...

Dove: Londra

Quando: il 1 ottobre

Perché: Esce – o meglio ri-esce – al cinema “Ritorno al futuro”…il film della mia vita, chè se non vi piace allora basta così…ma solo nei cinema inglesi (ma perché?! Cazzo c’entrano gli inglesi con Marty McFly?!)

Sono 25 anni e vanno celebrati, ma in realtà, ogni scusa è buona…

venerdì 9 luglio 2010

La Cina è vicina e il Re è morto...


Ieri sera alle 21 in punto l’America si è fermata – quasi come se ci fosse un Super Bowl fuori stagione – perché un ragazzo di (ancora) 25 anni doveva dichiarare con quale canotta avrebbe sudato sui parquet della NBA per i prossimi 5 anni.

Se il ragazzo in questione è soprannominato “Il Prescelto” e l’evento, in diretta su ESPN, è intitolato “The Decision 2010”, allora converrete che l’attesa era abbastanza giustificata.

Gli americani dicono che “tutto è più grande in Texas”, per quelli come noi - poveri esiliati ai confini dell’impero - “tutto è più grande in America”, quindi si aspettano le 3 del mattino per poter seguire live in streaming la trasmissione.

LeBron James si è seduto in una palestra a trenta Km da New York e – imbarazzato, impacciato e fuori ruolo come mai prima – ha detto Miami, raggiungendo così in quel di South Beach gli amichetti Dwyane Wade e Chris Bosh.

Fine della storia. E fine anche di un sogno.

LBJ avrebbe potuto scegliere Chicago per puntare subito al titolo, avrebbe potuto rimanere a Cleveland – a casa sua, dopo aver deliziato gli indigeni per sette anni – ma, soprattutto, avrebbe potuto (dovuto?) andare a New York…

Da almeno tre anni la franchigia più disastrata e ridicolizzata dello sport professionistico americano, preparava questo momento - aveva liberato spazio contrattuale, e spazio nello spogliatoio – ma ancora una volta è stata beffata.

Perché più di Gotham poté Pechino.

Durante quella gita fuori porta chiamata Olimpiadi, infatti, i tre ragazzotti di cui sopra avevano fatto un patto abbastanza chiaro: appena scadono i nostri contratti andiamo a giocare tutti insieme, da bravi amichetti…

E quello che sembrava fanta-basket della più bassa lega è diventato in una sola settimana una realtà.

La sconfitta, però, è totale.

Un altro semi-dio è tornato improvvisamente ad essere solo un superuomo, o meglio, un ragazzo stanco di continuare a correre più veloce delle aspettative che il mondo gli rovescia addosso.

Adesso vincerà quel maledetto titolo – magari non subito e magari più di uno – e non verrà ricordato come un altro di quei campioni che non hanno mai conquistato un anello.

Però lo Sport – con la S maiuscola – ci perde: poteva diventare una leggenda, ha scelto di essere un uomo…